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Le antenne di telefonia pagano il CUP se su patrimonio indisponibile

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Tribunale Pavia – Sez.III – Sentenza 324 del 13/3/2023

È infatti solo con riferimento ai beni pubblici demaniali o appartenenti al patrimonio indisponibile degli Enti minori che l’amministrazione esercita il potere impositivo della fiscalità locale.Se detto tributo o detto canone non sono fruibili – come accade per i beni ricompresi nel patrimonio disponibile dei Comuni – la speciale disciplina sopra dettata non può trovare applicazione, restando dunque dovuti dal privato (in quanto legittimi) i canoni di locazione pattuiti per l’utilizzo del bene appartenente al patrimonio disponibile dell’Ente.


Sentenza n. 324/2023 pubblicata il 13/3/2023

RG n. 3914/2021

———————-

TRIBUNALE ORDINARIO DI PAVIA

III Sezione Civile

Il Tribunale in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. …….

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I grado iscritta al n. R.G. 3914/2021, promossa da:

xxxxxxxxxxxxxxxxxx

in persona del procuratore speciale e legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv.

xxxxxxxxxxxx del foro di Milano;

OPPONENTE

contro

COMUNE DI Zxxxxxxxxxxxxxx

rappresentata e difesa dall’Avv. xxxxxx del foro di Pavia;

OPPOSTA

Oggetto: opposizione a procedura di riscossione coattiva delle entrate patrimoniali degli Enti pubblici locali

Conclusioni: le parti hanno concluso come da note di trattazione scritta / fogli di p.c., richiamati a verbale di udienza del 17.11.2022, celebrata in modalità cartolare ai sensi dell’art. 221, co. 4 L. n. 77/2020 e s.m.i.

Concisa esposizione del fatto e dello svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 16.07.2021, la Infrastrutture  Italiane S.p.a. (in forma abbreviata “IntT S.p.a.”) ha promosso rituale opposizione, davanti all’intestato Tribunale, ai sensi dell’art. 32 del D.lgs n. 150/2011, avverso l’avviso di accertamento n. 20210471200000004 del 18.05.2021, con cui il Comune di ZntO San Gnto ha intimato il pagamento della somma di € 6.183,54 a saldo del canone annuo 2021 per la concessione in uso di un’area del territorio comunale quale infrastruttura per l’esercizio della telefonia mobile cellulare.

Nella premessa dell’esistenza di un rapporto contrattuale-concessorio, della durata di anni nove, con l’Ente opposto per l’utilizzo dell’area in via — n per l’installazione di impianti di telecomunicazione di telefonia mobile, la società opponente ha contestato l’ingiunzione di pagamento, eccependo e deducendo:

1. la nullità dell’atto impugnato per mancata indicazione dell’Autorità giudiziaria competente a conoscere dell’opposizione e/o del termine entro cui promuovere tempestivo ricorso e/o della qualità del soggetto firmatario dell’avviso, in aperto contrasto con il “contenuto minimo” prescritto dall’art. 1, comma 161 della L. n. 296/2006;

2. la carenza probatoria atta a conferire certezza, liquidità ed esigibilità al credito azionato con l’accertamento impo-esattivo, sotto la vigenza dell’art. 1, co. 792 della L. n. 160/2019, il quale non potrebbe essere finalizzato al recupero di crediti (di natura privatistica) diversi dai tributi degli Entii locali;

3. la nullità e/o l’inefficacia dell’art. 7 del contratto del 29.12.2016 nella parte relativa alla determinazione del canone annuo, pattuito in € 13.400,00, in violazione delle norme imperative inderogabili di cui agli artt. 93 e 88 comma 12 del Codice delle Comunicazioni Elettroniche (CCE) e dell’art. 63 del D.L. 446/1997 e suc.mod., con la conseguenza che, per effetto della sostituzione automatica nel contratto ex art. 1339 c.c., l’Ente non potrebbe pretendere per l’occupazione degli spazi e delle aree pubbliche somme superiori all’importo minimo di legge, pari ad € 516,46.

Con comparsa di risposta del 24.11.2021, il Comune di  si è tempestivamente costituito deducendo, in sintesi:

– l’infondatezza delle censure meramente formali all’ingiunzione di pagamento;

– la sufficienza del contratto di locazione e l’allegazione dell’altrui inadempimento a fondare, nel merito, la pretesa creditoria;

– l’esclusione dall’ambito applicativo dell’art. 93 D.lgs. n. 259/2003, non trattandosi di fattispecie di prestazione patrimoniale imposta unilateralmente per le occupazioni di infrastrutture pubbliche o di suolo pubblico, bensì di canone concessorio per l’uso di un bene del patrimonio disponibile comunale stabilito di comune accordo tra le parti.

All’udienza del 27.01.2022, motivatamente respinta l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva dell’atto impugnato, sono stati assegnati, su richiesta delle parti, gli ulteriori termini ex art. 183, co. 6 c.p.c. All’esito, motivatamente respinte le istanze istruttorie (ord. 5.05.2022), la causa è stata chiamata all’udienza “figurata” del 17.11.2022 per la precisazione delle conclusioni.

Con brevi note scritte e/o fogli di p.c., le parti hanno precisato le seguenti conclusioni:

– per parte opponente: “Voglia il Tribunale Ill. mo, contrariis reiectis, così giudicare: In via principale: dato atto che l’accertamento esecutivo impugnato non contiene l’indicazione delle modalità né del termine per la presentazione dell’opposizione e che in calce allo stesso figura l’indicazione di soggetto per cui non è stata indicata e dimostrata la legittimazione ad impegnare l’Ente civico, dichiarare illegittimo e quindi annullare in ogni sua parte l’impugnato avviso di accertamento n. 20210471200000004 del Comune di Z… San Gnto notificato in data 18.05.2021, dichiarando integralmente infondata e illegittima –anche, occorrendo, ai sensi dell’art. 615 c.p.c.- la pretesa impositiva del Comune di Z…, con ogni consequenziale pronuncia e statuizione. In via meramente subordinata: previo eventuale accertamento della nullità – originaria o sopravvenuta- o l’inefficacia sopravvenuta dell’art. 7 del contratto 29.12.2016 per violazione di norme imperative (art. 93 del codice delle comunicazioni elettroniche D. Lgs. 259/03 e 63 del D.Lgs. 446/1997) con conseguente sostituzione dell’art. 7 del predetto contratto con la previsione dell’obbligo di pagamento delle somme ex lege dovute a titolo di Tosap determinate nella misura minima di euro 516,46 annue, revocarsi e/o annullarsi in ogni caso l’avviso di accertamento n. 20210471200000004 del Comune di Z—– in quanto intimante un importo non determinato in conformità alle prescrizioni imperative di cui agli articoli 93 del codice delle comunicazioni elettroniche, 63 del D Lgs. 446/1997 e art. 1 comma 826 e 831 bis L. 160 del 2019, il tutto con ogni conseguenza di legge, accertandosi e dichiarandosi che l’odierna conchiudente nulla deve all’Ente civico opposto.

In ogni caso: condannarsi il Comune di Z — alla restituzione dell’importo (maggiorato dei relativi interessi) corrisposto da IntT in forza del verbale di accertamento impugnato, importo corrisposto al solo fine di evitare la riscossione coattiva e con ogni più ampia riserva di ripetizione. In via istruttoria: disporsi, occorrendo, l’esibizione ex art. 210 c.p.c. della delibera della giunta comunale dell’Ente convenuto n. 143 del 05.12.2016, indicata alla lett. F) delle premesse del contratto di concessione di cui è causa. Con rifusione di spese e compenso legale a favore dell’odierna attrice.”;

– per parte opposta: “Voglia l’Ecc.mo Tribunale di Pavia respingere le domande avversarie tutte e per l’effetto confermare l’impugnato avviso di accertamento n. 20210471200000004 del 18.5.2021. Con rifusione di spese e competenze di causa.”.

Quindi, la causa è stata trattenuta a decisione con termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e memorie di replica.

Ragioni giuridiche della decisione

1§. L’oggetto del presente giudizio riguarda il recupero coattivo della rata del canone pattuito per l’anno 2021 dovuta da IntT S.p.a. al Comune di  in forza del contratto di concessione rep. 3566, stipulato il 29.12.2016 con durata novennale (dal 1.01.2017 al 31.12.2025) per l’utilizzo esclusivo dell’area di mq 400,14 in via Entn (distinta al NCT, fg. 19, map. 115), destinata all’istallazione di infrastrutture e impianti di telecomunicazione e telefonia mobile (v. doc. 3 fasc.oppon. e doc. 2 fasc.opp.).

2§. Per ragioni di ordine logico giuridico vanno dapprima esaminati i rilievi avanzati dalla difesa di parte opponente, con i quali si deduce la violazione del procedimento di cui al r.d. 14.04.1910, n. 639 e si lamentano plurimi vizi di forma dell’atto impugnato.

2.1 Giova sin da subito evidenziare che non si dubita della natura “extra-fiscale” e privatistica del credito ingiunto dall’Ente locale attraverso l’intimazione di pagamento avversata. Orbene, diversamente da quanto sostenuto dall’opponente, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, lo speciale procedimento disciplinato dal R.D. 14 aprile 1910, n. 639 è utilizzabile, da parte della P.A., non solo per le entrate strettamente di diritto pubblico, ma anche per quelle di diritto privato, trovando il suo fondamento nel potere di auto-accertamento della medesima P.A., con il solo limite che il credito in base al quale viene emesso l’ordine di pagare sia certo, liquido ed esigibile, dovendo la sua sussistenza, la sua determinazione quantitativa e le sue condizioni di esigibilità derivare da fonti, da fatti e da parametri obiettivi e predeterminati, rispetto ai quali l’Amministrazione dispone di un mero potere di accertamento, restando affidata al giudice del merito la valutazione, in concreto, dell’esistenza dei suindicati presupposti (cfr. Cass., Sez. Un., n. 11992/2009; conf. Cass. n. 7076/2016; Cass. n. 1226/2007, Cass. n. 2965/1981; Cass. n. 11368/2002; Cass. n. 16855/2004).

Nel caso di specie, l’identificazione e la quantificazione del credito ingiunto ha fonte negoziale e, segnatamente, nella clausola che determina l’ammontare del canone pattuito e ne detta scadenze, termini e modalità di pagamento (art. 7).

Se da un lato ciò consente alla Pubblica Amministrazione di agire attraverso le forme e la struttura dell’atto “impoesattivo” (cd. accertamenti esecutivi) per riscuotere in modo più celere le entrate patrimoniali di fonte certa, senza necessità dell’emissione di una cartella di pagamento – dal momento che l’avviso di accertamento, prima solo impositivo, diventa titolo esecutivo decorsi sessanta giorni dalla notifica – non implica che l’Ente pubblico sia obbligato all’uso di tale speciale procedura, rimanendo in facoltà la possibilità di avvalersi, in via alternativa, del tradizionale procedimento monitorio di cui agli art. 633 ss. c.p.c. È noto, altresì, che per il recupero delle entrate patrimoniali di qualsiasi natura i Comuni possono avvalersi della procedura di riscossione coattiva tramite l’ingiunzione di cui al r.d. cit. anche affidando il relativo servizio ai concessionari iscritti all’albo di cui all’art. 53 del d.lgs. 44 del 1997, tra i quali deve annoverarsi la Sorit S.p.a. come evidenziato dalle informazioni dell’avviso di accertamento impugnato (“5. (…) la riscossione verrà eseguita dalla SORIT S.P.A. quale Concessionario iscritto all’Albo di cui all’art. 53 D.Lgs. 446/1997, legittimato all’esecuzione forzata in virtù della convenzione stipulata con il COMUNE DI ZntO SAN Gnto.”), di cui non si ha motivo di dubitare.

2.2 Prive di pregio sono anche le doglianze dirette a colpire la validità dell’ingiunzione per omessa o insufficiente indicazione dell’Autorità giudiziaria competente a conoscere dell’opposizione e del termine entro cui promuoverla.

Anzitutto, risulta dal testo dell’avviso di addebito versato in atti come lo stesso contenga chiare e sufficiente avvertenze in ordine alle modalità di contestazione della pretesa (“Avvertenze per proporre opposizione”), venendo correttamente indicata sia l’Autorità giudiziaria “ordinaria” del luogo in cui ha sede l’Ufficio che ha emesso il provvedimento opposto (conf. Corte Cost. n. 158/2019 e Corte Cost. n. 225/2020), sia la normativa applicabile per promuovere l’opposizione secondo il rito ordinario previsto dal richiamato art. 32 del D.lgs n. 150/2011, nonché la facoltà per l’opponente di chiedere la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento opposto, ai sensi dell’art. 5 del cit. D.lgs. La mancata specificazione del termine di trenta giorni previsto dall’art. 3 del r.d. 639/1910 per promuovere l’opposizione (antecedente alle modifiche apportate dal decreto di semplificazione riti) è invece di per sé irrilevante, giacché si tratta di un termine di carattere meramente ordinatorio, il cui inutile decorso non preclude l’opposizione che il debitore proponga per contestare nel merito l’esistenza o la legittimità della pretesa creditoria, né viene sancita per la sua eventuale inosservanza alcuna decadenza o inammissibilità della domanda (cfr. Cass. n. 1571/1996; Cass. n. 13751/2003; Cass. n. 5223/2007; Cass. n. 5926/2007; da ult. Cass. n. 12031/2021). A prescindere dalle conclusioni che precedono, va ricordato che è affermazione consolidata nella giurisprudenza di legittimità quella per cui “l’omessa indicazione dell’autorità alla quale proporre opposizione e del relativo termine determina, infatti, non già la nullità dell’atto, bensì una mera irregolarità, che impedisce il verificarsi di preclusioni processuali in ragione della scusabilità dell’errore in cui l’interessato sia eventualmente incorso e del quale dimostri la decisività” (cfr. Cass., sez. trib., n. 896/2023; conf. ex multis, Cass. n. 10787/2020; Cass. n. 301/2018; Cass. n. 1372/2013; Cass. n. 19675/2011). È evidente che la doglianza dell’opponente mira a colpire soltanto irregolarità formali ed è perciò inammissibile, prima ancora che infondata, in quanto difettosa di un reale interesse.

2.3 Quanto, poi, all’omessa indicazione della qualifica del soggetto-persona fisica il cui nominativo risulta riportato in calce all’avviso di addebito, costituisce jus receptum il fatto che essa non comporta l’invalidità del provvedimento, a maggior ragione quando – come nel caso di specie – l’atto è inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo. Vieppiù si è affermato che, quando l’ordinanza è stata redatta con sistemi meccanizzati, la sottoscrizione viene sostituita dall’indicazione prevista dall’art. 3, comma 2 L. n. 39 del 1993, secondo cui: nell’ambito delle pubbliche amministrazioni l’immissione, la riproduzione su qualunque supporto e la trasmissione di dati, informazioni e documenti mediante sistemi informatici o telematici, nonché l’emanazione di atti amministrativi attraverso i medesimi sistemi, devono essere accompagnati dall’indicazione della fonte e del responsabile dell’immissione, riproduzione, trasmissione o emanazione. Inoltre, qualora per la validità degli atti adottati sia prevista l’apposizione di firma autografa, quest’ultima è sostituita dall’indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile  (Cass. 18493/2020; Cass. 12160/2012).

Poiché, nello specifico, l’ordinanza risulta essere stata redatta con sistema meccanizzato, è sufficiente a conferirne validità l’indicazione a stampa del nome (arch. Massimo Panara) del soggetto che rappresenta l’Ente, quale formalità sostitutiva della sottoscrizione. Spetta(va) all’opponente che deduce l’illegittimità per insussistenza della delega di firma in capo al funzionario che ha emesso il provvedimento, l’onere della prova della carenza di delega (cfr. Cass. n. 24231/2022). La questione, ad ogni modo, è da ritenersi superata con il riscontro di identità della persona fisica che ha emesso l’ingiunzione (arch. Massimo Panara) e il Responsabile del settore tecnico del Comune di ZntO San Gnto (PV), le cui generalità e la cui qualifica sono riportate nel contratto di concessione d’uso per cui è causa.

2.4 Va infine precisato come ogni eventuale irregolarità formale del titolo rimane irrilevante nell’odierno giudizio di opposizione, una volta che il soggetto interessato abbia avuto conoscenza piena della pretesa creditoria, tanto da essere in grado di spiegare una dettagliata opposizione nel merito, senza incorrere in alcuna decadenza (cfr. Cass. n. 20360/2006).

Difatti, secondo l’orientamento assolutamente costante e consolidato della Corte di legittimità, nel procedimento monitorio apprestato per la spedita riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri Enti pubblici (r.d. 14 aprile 1910 n.639), l’atto formale dell’ingiunzione cumula le caratteristiche dal titolo esecutivo stragiudiziale e del precetto, di guisa che l’opposizione del debitore costituisca la domanda giudiziale che apre un ordinario processo cognitivo, diretto a contestare il diritto all’esecuzione e ad ottenere un accertamento negativo a favore del debitore stesso, che viene ad assumere vera e propria veste di attore (così sin da Cass., Sez. Un., n. 2339/1967; conf. tutte le successive, tra cui Cass. n. 9421/2003; Cass. n. 6487/2004; Cass. n. 14051/2006; Cass. n. 3341/2009).

In altri termini, “con l’impugnazione del titolo esecutivo stragiudiziale, l’opponente invoca l’accertamento negativo della pretesa ivi manifestata, sicché il giudice ha il potere/dovere di accertare il rapporto sostanziale, nonostante l’eventuale accertata illegittimità dell’ingiunzione” (conf. Cass. n. 2355/2019).

Ne consegue che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., la P.A. convenuta in giudizio di opposizione ex art. 3 r.d. n. 639 del 1910 (oggi art. 32 D.lgs n. 150/2011) è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, mentre l’opponente deve dimostrare la loro inefficacia ovvero l’esistenza di cause modificative o estintive degli stessi. Non rileva al riguardo che la menzionata ingiunzione cumula in sé la natura e funzione di titolo esecutivo unilateralmente formato dalla P.A. nell’esercizio del suo peculiare potere di autoaccertamento e di atto prodromico all’inizio dell’esecuzione coattiva, poiché ciò non implica che nel giudizio di opposizione l’ingiunzione sia assistita da una presunzione di verità, dovendo piuttosto ritenersi che la posizione di vantaggio riconosciuta alla P.A. sia limitata al momento della formazione unilaterale del titolo esecutivo, restando escluso – perché del tutto ingiustificato in riferimento a dati testuali e ad un’esegesi costituzionalmente orientata in relazione all’art. 111 Cost. – che essa possa permanere anche nella successiva fase contenziosa, in seno alla quale il rapporto deve essere provato secondo le regole ordinarie (cfr. Cass. n. 9381/2021; conf. Cass. n. 9989/2016; Cass. n. 23346/2022).

3§. Venendo al merito, come accennato in apertura, l’oggetto del presente giudizio riguarda il recupero coattivo da parte del Comune di Z della seconda rata del canone per l’anno 2021 dovuto da IntT S.p.a. in forza di un contratto di concessione d’area di mq 400,14 in via Entn (distinta al NCT, fg. 19, map. 115), utilizzata dalla società opponente quale infrastruttura per l’esercizio della telefonia mobile e, nello specifico, “palo, antenne e relativi apparati di trasmissione posizionati all’interno di uno shelter” (v. art. 2 del contratto del 29.12.2016, sub. doc. 3 fasc.oppon. e doc. 2 fasc.opp.). In particolare, la documentazione versata in atti evidenzia che l’area in via Entn (meglio individuata sulla tavola di cui all’allegato A del contratto, sub. doc. 2 fasc.opp., pag. 19) è stata concessa in uso alla IntT S.p.a. con contratto rep. 3566 del 29.12.2016 per la durata di nove anni (dal 1.01.2017 al 31.12.2025) e per un canone annuo pattuito in € 13.400,00, suddiviso in due rate semestrali da corrispondersi anticipatamente entro la prima decade di ogni semestre (art. 7).

3.1 È opportuno altresì precisare che l’opponente non contesta il mancato pagamento del saldo del canone per l’anno 2021, piuttosto sostiene l’illegittimità dell’ingiunzione eccependo la nullità e/o l’inefficacia della clausola pattizia che ne determina l’ammontare in misura superiore al contributo dovuto per legge, poiché ritenuta in contrasto con la disciplina, imperativa e inderogabile, di cui agli artt. 93 e 88 co. 12 del Codice delle comunicazioni elettroniche e art. 63 del D.L. n. 446/1997.

L’opposizione è basata sul presupposto che, trattandosi di “beni destinati al pubblico servizio” e, precisamente, di un servizio di “preminente interesse generale” (art. 3 CCE), anche le aree funzionali all’erogazione servizio di telecomunicazioni elettroniche, destinate ad ospitare gli impianti di TLC, appartengono al patrimonio indisponibile dei Comuni, ai sensi dell’art. 826 c.c., rimanendo soggette alla normativa speciale dettata, in particolare, dall’art. 93, comma 2 del D.lgs. n. 259/2003.

Dall’altro lato, se è incontroverso che, nel caso concreto, la IntT S.p.a. sia un operatore di telecomunicazioni, subentrato nel rapporto contrattuale del 26.02.2015 per cessione di ramo d’azienda da Telecom Italia S.p.a. (doc. 4 fasc.oppon.), viene specificamente contestato dalla difesa del Comune opposto che possa trattarsi di una concessione di beni pubblici, trattandosi di un bene appartenente al patrimonio disponibile dell’Ente locale, che esula, come tale, dal regime pubblicistico e dall’ambito di applicazione della norma citata.

3.2 Per la soluzione della controversia è imprescindibile una ricognizione dell’evoluzione della disciplina legislativa che qui viene in rilievo.

Il comma 1 dell’art. 93 d.lgs. n. 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche) testualmente recita: “Le Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge”. Il successivo comma 2, nella versione risultante dalla novella apportata dal d.lgs. n. 70/2012, statuisce: “Gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica hanno l’obbligo di tenere indenne la Pubblica Amministrazione, l’Ente locale, ovvero l’Ente proprietario o gestore, dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche specificamente coinvolte dagli interventi di installazione e manutenzione e di ripristinare a regola d’arte le aree medesime nei tempi stabiliti dall’Ente locale. Nessun altro onere finanziario, reale o contributo può essere imposto, in conseguenza dell’esecuzione delle opere di cui al Codice o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, fatta salva l’applicazione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, oppure del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui all’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, calcolato secondo quanto previsto dal comma 2, lettere e) ed f), del medesimo articolo, ovvero dell’eventuale contributo una tantum per spese di costruzione delle gallerie di cui all’art. 47, comma 4, del predetto decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507”.

Tale disciplina è stata considerata, dall’indirizzo interpretativo assolutamente prevalente, come espressione di un principio fondamentale dell’ordinamento di settore delle telecomunicazioni, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a loro carico oneri o canoni, posto che – ove ciò non fosse – ogni singola amministrazione munita di potestà impositiva potrebbe liberamente prevedere obblighi pecuniari a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio, appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, ai quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti (v. Corte Cost., n. 336/2005, n. 450/2006, n. 272/2010, n. 47/2015; Cons. Stato, n. 2335/2016).

Sull’art. 93 d.lgs. d.lgs. n. 259/2003 è, poi, intervenuto l’art. 12, comma 3, d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 33 (Attuazione della direttiva 2014/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, recante misure volte a ridurre i costi dell’installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità), che, nella sua originaria versione, testualmente recita: “3. L’articolo 93, comma 2, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica possono essere soggetti soltanto alle prestazioni e alle tasse o canoni espressamente previsti dal comma 2 della medesima disposizione”.

Tale ultima disposizione è stata integrata dall’art. 8-bis, comma 1, lettera c), d.-l. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito con modificazioni, dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12, che, nella versione così modificata, stabilisce: "3. L’articolo 93, comma 2, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica possono essere soggetti soltanto alle prestazioni e alle tasse o canoni espressamente previsti dal comma 2 della medesima disposizione, restando quindi escluso ogni altro tipo di onere finanziario, reale o contributo, comunque denominato, di qualsiasi natura e per qualsivoglia ragione o titolo richiesto”.

3.3 Orbene, se sulla portata dell’intervento legislativo del 2016 non sono emersi dubbi di sorta – atteso il chiaro disposto normativo – quanto alla valenza di norma di interpretazione autentica, applicabile retroattivamente (cfr. Cass. n. 283/2017), maggiori problemi ha posto l’“aggiunta” apportata dalla legge n. 12/2019 (in sede di conversione del D.L. n. 135/2018) all’art. 12 comma 3, d.lgs. n. 33/2016 (“…restando quindi escluso ogni altro tipo di onere finanziario, reale o contributo, comunque denominato, di qualsiasi natura e per qualsivoglia ragione o titolo richiesto”) che, secondo il più recente e condivisibile arresto dei giudici amministrativi di legittimità, deve qualificarsi alla stregua di “nuovo ed innovativo precetto normativo” che, come tale, in mancanza di diversa disposizione espressa, “è applicabile solo per il futuro” (cfr. Cons. Stato n. 3467/2020).

3.4 Ad ogni modo, siffatta valenza “innovativa” e “non retroattiva” dell’intervento legislativo del 2019 non incide sulla presente decisione, dal momento che il rapporto è ancora in essere tra le parti (i.e. non ha “esaurito i suoi effetti” prima del 13 febbraio 2019) ed il credito ingiunto attiene al canone dovuto per l’anno 2021. Va piuttosto evidenziato che, successivamente ai succitati interventi normativi, il Legislatore è nuovamente intervenuto con la legge 27 dicembre 2019, n. 160, abrogando la Tosap e Cosap (art. 1, co. 847) per istituire il nuovo “canone unico patrimoniale”, con decorrenza dall’esercizio di bilancio 2021.

4§. Si tratta, allora, di sciogliere il dubbio interpretativo in ordine all’effettiva sussunzione del rapporto sub judice nell’ambito applicativo della norma.

4.1 In primo luogo, si osserva che l’area di Via s.n.c. concessa in godimento “esclusivo” ad IntT S.p.a. vada ascritta, come dedotto dal Comune, al patrimonio disponibile dell’Ente.

Al riguardo, difatti, l’opponente non ha fornito alcuna prova circa la circostanza che il piano di sedime su cui insistono gli impianti di telefonia appartenga al patrimonio indisponibile del Comune, limitandosi ad affermare che “l’esercizio delle telecomunicazioni appartiene al novero delle attività di interesse pubblico…” e che “…il carattere di servizio essenziale e di pubblica utilità dell’attività di telecomunicazione per telefonia mobile è espressamente riconosciuto dall’art. 3 del D.lgs n. 259/03, meglio noto come Codice delle Comunicazioni Elettroniche”)…”, ma tali affermazioni non risultano dirimenti, atteso che, come da costante giurisprudenza della S.C. di Cassazione, “affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, in quanto destinati ad un pubblico servizio ai sensi dell’art. 826 c.c., comma 3, deve sussistere il doppio requisito (soggettivo ed oggettivo) della manifestazione di volontà dell’Ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’Ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio) e dell’effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio; in difetto di tali condizioni e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento del bene medesimo in favore di privati non può essere ricondotta ad un rapporto di concessione amministrativa, ma, inerendo a un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del nomen iuris che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, essa viene ad inquadrarsi nello schema privatistico della locazione, con la conseguente devoluzione della cognizione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario” (cfr. Cass., Sez. Un., n. 6019/2016; conf. Ex multis Cass., Sez. Un., n. 14865/2006; n. 12251/2009; n. 8362/2013; n. 13664/2019; n.21991/2020). Nelle motivazioni dell’ultimo dei citati arresti, si riconosce come pacifico e risalente in giurisprudenza il principio per cui “l’attribuzione a privati dell’utilizzazione dei beni pubblici in senso stretto, ossia appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile di un Ente pubblico, sia sempre riconducibile (ove non risulti diversamente) alla figura della concessione-contratto, in quanto il godimento dei beni pubblici, stante la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuita ad un soggetto diverso dall’Ente titolare del diritto solo mediante concessione amministrativa, mentre laddove si tratti di beni del patrimonio disponibile viene a realizzarsi lo schema privatistico della locazione; si ribadisce, inoltre, che occorre proprio il doppio requisito soggettivo e oggettivo, affermando la necessità della volontà dell’Ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio – da manifestarsi mediante un atto amministrativo da cui emerga una specifica volontà in tal senso – e la ulteriore necessità dell’attuale ed effettiva destinazione del bene all’individuato pubblico servizio” (cfr. Cass., Sez. Un., n. 21991/2020 cit., in motiv., p. 3 ss). Assolutamente in linea si pone la giurisprudenza amministrativa, per la quale non sono dirimenti i termini utilizzati – si parla nelle premesse di “concessione” e nella parte dispositiva è detto che l’amministrazione determina di “concedere” – come pure gli effetti voluti di “cessione in godimento” delle aree al privato dietro pagamento di una somma, in quanto “per stabilire se si sia in presenza di concessione di bene pubblico ovvero di atto paritetico riconducibile alla locazione, non è sufficiente che l’amministrazione pubblica abbia concesso in godimento il bene al privato, ma è necessario indagare la natura del bene stesso, per cui solo se il bene appartiene al novero dei beni demaniali è possibile qualificare il provvedimento come concessione demaniale, e non è possibile invece qualora appartenga al patrimonio disponibile dell’amministrazione” (cfr. Cons. Stato, n. 4216/2021; conf. Cons. Stato, n. 4783/2019).

4.2 Applicando tale fermo e concorde insegnamento della giurisprudenza di legittimità, deve

constatarsi che, in questo caso, manca l’atto amministrativo del Comune di  Gnto da

cui inferire la volontà dello stesso di destinare a pubblico servizio le aree su cui insistono gli

impianti di IntT S.p.a., non essendo stato allegato agli atti alcun atto amministrativo comunale che

disponga in tal senso, né l’onere della prova avrebbe potuto essere sopperito dall’istanza di

esibizione ex art. 210 c.p.c. della delibera della Giunta Comunale n. 143 del 05.12.2016, in

mancanza di un previo tentativo di “accesso agli atti” ed esplorativa quanto a finalità.

Un grave indizio contrario si ricava, piuttosto, dall’inventario per l’anno 2021 dei beni immobili

demaniali e del patrimonio indisponibile del Comune di , prodotto da parte

opposta (doc. 9 fasc.opp.), nel cui elenco non risulta iscritta la predetta area di via Entn.

Inoltre, per quanto è dato desumere dal certificato di destinazione urbanistica del map. 115 del fg.

19 (destinato in parte a “parcheggi P1” e in parte ad “impianti tecnologici” nel “Territorio esterno al

Parco”, soggetto al Piano dei servizi “Attrezzature per gli insediamenti produttivi esistenti”; doc. 8

fasc.opp.), non pare nemmeno “impressa” una destinazione dell’area al pubblico servizio.

La tesi prospettata dall’opponente circa l’oggettiva destinazione delle “opere” alla fruizione, di

generale interesse, del servizio di telecomunicazioni tralascia di considerare come la stessa non è

sufficiente per imprimere natura pubblicistica alla relazione giuridica intercorsa con la P.A.,

dovendo necessariamente affiancarsi al requisito oggettivo, anche quello soggettivo, di cui all’art.

826 c.c. u.c., il quale è costituito da una manifestazione di volontà dell’Ente proprietario, espressa in

un atto amministrativo ad hoc, da cui desumere che il bene sia stato destinato al soddisfacimento di

un’esigenza della collettività (cfr. Cass., Sez. Un., n. 18133/2015).

4.3 In definitiva, dovendo considerarsi il bene immobile come appartenente al patrimonio disponibile del Comune di , il cui godimento è stato concesso a IntT S.p.a. (e, prima di allora, a Telecom Italia S.p.a.) nell’esercizio dell’autonomia negoziale e paritetica dell’Ente locale (e non della sua veste pubblicistica), viene a realizzarsi – al di là del nomen iuris utilizzato (“contratto di concessione d’uso”) – un ordinario rapporto di diritto privato, inquadrabile nello schema della locazione, conseguendone diritti e obblighi di natura esclusivamente patrimoniale.

4.4 Ciò conduce ad escludere il rapporto per cui è causa dal divieto imposto dall’art. 93, comma 2 CEE, norma che facendo “salva” solamente la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, oppure il canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 63 e succ. mod., calcolato secondo quanto previsto dal comma 2, lett. e) ed f), del medesimo articolo, non può che avere, quale presupposto applicativo, l’occupazione di “strade, aree e relativi spazi appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile” ovvero di “strade, corsi, piazze e, comunque, beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni e delle province” (v. Cass., Sez. Un., n. 61/2016, in tema di riparto di giurisdizione, sul discrimen tra Tosap e Cosap; v. anche Cass. n. 17299/2019 che, sulla portata dell’art. 93, comma 2 D.lgs. cit., si è espressa in questi termini: “Tale disposizione non ha affatto una funzione impositiva, e al contrario persegue espressamente lo scopo di preservare i fornitori di reti di comunicazione elettronica da ulteriori oneri, mentre il richiamo di salvaguardia d’efficacia tanto della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Tosap) e del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap) presuppone la debenza dell’uno o dell’altro, secondo la disciplina propria dell’uno e dell’altro istituto, puntualmente richiamata nelle sue coordinate normative. In termini ancora più chiari, il citato art. 93 non obbliga i fornitori di reti di comunicazione elettronica a pagare la Tosap o il Cosap, ma fa salva la debenza di tali oneri, se e in quanto dovuti secondo le rispettive discipline.”).

È infatti solo con riferimento ai beni pubblici demaniali o appartenenti al patrimonio indisponibile degli Enti minori che l’amministrazione esercita il potere impositivo della fiscalità locale.

Se detto tributo o detto canone non sono fruibili – come accade per i beni ricompresi nel patrimonio disponibile dei Comuni – la speciale disciplina sopra dettata non può trovare applicazione, restando dunque dovuti dal privato (in quanto legittimi) i canoni di locazione pattuiti per l’utilizzo del bene appartenente al patrimonio disponibile dell’Ente.

4.5 Un tale conclusione, a ben vedere, non contrasta con l’intervento innovativo apportato dall’art. 8

bis, co. 1, lett. c) d.l. n. 135/2018 e s.m. da L. n. 12/2019, in quanto l’avere esteso il divieto

impositivo di cui all’art. 93, co. 2 D.lgs. n. 259/2003 a fattispecie di determinazione del canone che

trovino titolo in una fonte contrattuale e pattizia, non legittima in alcun modo la lettura che

l’opponEnte intende darle e cioè che possa prescindersi dalla natura pubblicistica del bene.

Inoltre, siffatta interpretazione non collide nemmeno con le finalità della norma di tutela della

concorrenza, di garanzia di parità di trattamento e di misura volta a non ostacolare l’ingresso di

nuovi soggetti nel settore delle telecomunicazioni, giacché il quadro normativo comune per le reti

ed i servizi di comunicazione elettronica, istituito dalla direttiva 2002/21/CE del Parlamento

europeo e del Consiglio Europeo del 7 marzo 2002, mostra di lasciare impregiudicate “le

disposizioni nazionali vigEnti in materia di espropriazione o uso di una proprietà, normale

esercizio dei diritti di proprietà, normale uso dei beni pubblici” (Considerando 22).

In tal senso si pone la maggioritaria e preferibile giurisprudenza di merito (C. App. Milano, n.

4178/2018; Trib. Torino, n. 5059/2018; Trib. Ivrea, n.394/2019; C. App. Trieste, n. 48/2021; Trib.

Modena, n. 1192/2022; C. App. Venezia, n. 2488/2023).

4.6 Ferme tali considerazioni, svolte sull’impianto normativo ratione temporis applicabile (dal

13.02.2019 al 23.12.2021), da ultimo e per completezza va osservato che il nodo ermeneutico

sembra essere ormai sciolto con le ulteriori modifiche apportate al nuovo Codice delle

Comunicazioni Elettroniche dal D.lgs 8 novembre 2021, n. 207.

Sostituendo l’ex art. 93 del vecchio Codice, il nuovo art. 54 del D.lgs n. 259/2003 oggi recita: “Le

Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni, i consorzi, gli Enti pubblici

economici, i concessionari di pubblici servizi, di aree e beni pubblici o demaniali, non possono

imporre per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o

canoni ulteriori a quelli stabiliti nel presente decreto, fatta salva l’applicazione del canone previsto

dall’articolo 1, comma 816, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, come modificato dalla legge 30

dicembre 2020 n. 178. Resta escluso ogni altro tipo di onere finanziario, reale o contributo,

comunque denominato, di qualsiasi natura e per qualsiasi ragione o titolo richiesto, come da art.

12 del decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 33, come integrato dall’art. 8 bis, comma 1, lettera

c) del decreto-legge14 dicembre 2018, n. 135, coordinato con la legge di conversione 11 febbraio

2019, n. 12.” Attraverso tale ultimo intervento legislativo, l’inerenza fra il divieto di oneri

“ulteriori” rispetto al canone unico alle “aree e beni pubblici o demaniali” è stata esplicitata in

maniera inequivoca.

4.7 L’altra censura mossa dall’opponente sull’iniquità delle condizioni contrattuali di

determinazione del canone – accennata con il richiamo all’art. 88, co. 12 CCE e all’art. 64 D.lgs n.

446/1997 quanto alla “misura” del canone di occupazione (“equa”, “non discriminatoria” o fissata

dalla legge) – è irrilevante in quanto non riferibile al caso di specie e pare, a questo Giudice, frutto

di un ragionamento concettualmente viziato, laddove si pretende di trarre argomenti circa la

debenza del canone Cosap da una disposizione dettata per la determinazione della sua misura, che

presuppone, e non dimostra, la natura pubblicistica del rapporto e la qualità di “soggetto passivo” in

capo all’operatore.

5§. In definitiva, l’opposizione è infondata e va rigettata.

Al momento della pendenza della lite, non si rinviene una situazione tale da potere essere

annoverata nelle ipotesi di “assoluta novità” o di “mutamento della giurisprudenza” sulla questione

decisiva che, al pari delle situazioni di “gravità ed eccezionalità” (art. 92, co. 2 c.p.c.),

giustificherebbe una compensazione, anche parziale, delle spese del giudizio.

Pertanto, le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come nel

dispositivo, secondo i parametri dettati dal D.M. 55/2014 e s.m. da ultimo con D.M. 147/2022, il

quale trova applicazione con riferimento alle “prestazioni professionali esaurite successivamente

alla sua entrata in vigore”, ossia da far data dal 23.10.2022 (art. 6 D.M. cit.) (scaglione di valore da

€ 5.201,00 a € 26.000,00; tutte le fasi; valori medi).

P.Q.M.

Il Tribunale in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed

eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

• rigetta l’opposizione promossa da Infrastrutture WntS Italiane S.p.a. in quanto infondata

e, per l’effetto, conferma l’avviso di accertamento n. 20210471200000004 emesso in data

18.5.2021 dal Comune di ;

• condanna la parte soccombente a rifondere le spese di lite in favore della parte vittoriosa,

che si liquidano € 5.077,00 per compensi (di cui € 919,00 fase studio, € 777,00 fase intr., €

1.680,00 fase istr., € 1.701,00 fase dec.), oltre 15% rimb.forf. spese generali, IVA e CPA

come per legge.

Così è deciso in Pavia, lì 10 marzo 2023 Il Giudice

dott. Giacomo Rocchetti