DOMANDE SUI TRIBUTI LOCALI
- Domanda: Imu
La Corte di cassazione con sentenza 2901/2017 ha sostenuto che gli effetti
dell’attribuzione della qualifica di edificabilità decorrono dal primo gennaio dell’anno
successivo a quello di adozione dello strumento urbanistico generale. Tanto, in
ragione del fatto che l’articolo 5, Dlgs 504/92, individua come base imponibile il
valore di mercato esistente al primo gennaio di ciascun anno. Pertanto, se il Prg è
stato adottato ad esempio nel corso del 2018, poiché al primo gennaio 2018 l’area
non era considerata edificabile, non potrebbe applicarsi il suddetto criterio di
determinazione della base imponibile e pertanto la stessa sarà considerata
edificabile solo a partire dal 2019. Si asserisce altresì che l’Ici (e quindi l’Imu) non
sarebbe un’imposta frazionabile ad anno salve le eccezioni tassativamente previste
nella legge. Poiché una simile affermazione contrasta tra l’altro con le istruzioni
ministeriali alla compilazione del modello di dichiarazione Imu, si chiede di sapere se
le stesse devono ritenersi revocate in ragione del suddetto pronunciamento della
Suprema corte.
Risposta:
Non si ritiene che le istruzioni ministeriali per la compilazione della dichiarazione IMU siano in
contrasto con la sentenza della Corte di Cassazione n. 2901 del 2017.
L’art. 5, comma 5, del D. Lgs. n. 504 del 1992 prevede che “Per le aree fabbricabili, il valore è
costituito da quello venale in comune commercio al 1° gennaio dell’anno di imposizione,
avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all’indice di edificabilità, alla
destinazione d’uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno
necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi
analoghe caratteristiche”.
Ad avviso dei redattori della richiamata sentenza, il Legislatore, adottando tale criterio
specifico per la determinazione della base imponibile del tributo, ha ritenuto di non dover
applicare il principio della frazionabilità dello stesso.
Ciò premesso, si fa presente che le istruzioni ministeriali alla compilazione del modello di
dichiarazione IMU nel punto 2.2, dedicato al “VALORE DELLE AREE FABBRICABILI”, appaiono
in linea con il comma 5 dell’art. 5 del D. Lgs. n. 504 del 1992, in quanto non affermano il
principio di frazionabilità dell’imposta relativa ad un anno, ma si limitano a riprendere il
contenuto della disposizione in argomento.
Le istruzioni IMU non ostano, quindi, a una compilazione del modello che sia coerente con
l’interpretazione affermata dalla Corte di Cassazione. - Domande: Imposta di pubblicità
Con riferimento all’articolo 1, comma 919 della legge 145/2018, il quale prevede che
“a decorrere dal 1° gennaio 2019, le tariffe e i diritti di cui al capo I del decreto
legislativo 15 novembre 1993, n. 507, possono essere aumentati dagli enti locali fino
al 50 per cento per le superfici superiori al metro quadrato e le frazioni di esso si
arrotondano a mezzo metro quadrato”, si chiede:
se per il diritto sulle pubbliche affissioni possa essere disposto l’aumento
per le superfici superiori al mq. In tal senso, e per l’analoga disposizione
recata dall’articolo 11 del Dlgs 449/1997, si è espresso il ministero delle
Finanze con circolare 1/2001;
conferma che l’aumento del 50% delle tariffe base possa essere disposto
anche per la pubblicità che non viene quantificata al metro quadro, come
ad esempio, la pubblicità varia di cui all’articolo 15, commi dal 2 al 5, del
Dlgs 507/1993.
Risposta:
Con riferimento al primo quesito si fa presente che gli aumenti tariffari, introdotti a partire
dal 1° gennaio 2019, sono senz’altro applicabili anche al diritto sulle pubbliche affissioni,
come espressamente previsto dalla disposizione in commento.
Per cui, il limite del metro quadrato deve essere preso in considerazione anche per il diritto
sulle pubbliche affissioni. La circostanza che la relativa tariffa non è parametrata, come
quella dell’imposta sulla pubblicità, al metro quadrato di superficie espositiva, ma al “foglio
di dimensione fino a cm.70 x 100”, ai sensi dell’art. 19, comma 2, del D. Lgs. 15 novembre
1993, n. 507, richiede solo di effettuare la conversione della misura dei fogli di cui si
compone il manifesto in metri quadrati, corrispondente a 0,7 metri quadrati.
Tale equivalenza è stata indicata nella circolare n. 1/FL del 5 febbraio 2001, richiamata nel
quesito.
Per quanto concerne le fattispecie pubblicitarie per le quali non è previsto il riferimento al
limite dimensionale del metro quadrato, invece, non si può applicare la maggiorazione
introdotta dalla legge di bilancio per il 2019, in virtù del chiaro riferimento alle “superfici
superiori al metro quadrato”.
A questo proposito, si richiamano le fattispecie disciplinate nell’art. 15 del D. Lgs. n. 507 del
1993 relativo alla pubblicità varia, il quale stabilisce che per la pubblicità effettuata:
da aeromobili mediante scritte, striscioni, disegni fumogeni, lancio di oggetti o manifestini e
per quella eseguita con palloni frenati e simili l’imposta si calcola “per ogni giorno o
frazione”;
mediante distribuzione, anche con veicoli, di manifestini o di altro materiale pubblicitario,
oppure mediante persone circolanti con cartelli o altri mezzi pubblicitari, l’imposta è dovuta
“per ciascuna persona impiegata nella distribuzione od effettuazione e per ogni giorno o
frazione, indipendentemente dalla misura dei mezzi pubblicitari o dalla quantità di materiale
distribuito”;
a mezzo di apparecchi amplificatori e simili, la tariffa dell’imposta dovuta per ciascun punto
di pubblicità e per ciascun giorno o frazione.
Domanda
Il comma 917 della legge di bilancio 2019 consente ai Comuni che hanno aumentato
le tariffe Icp e affissioni di rimborsare la maggiorazione in forma rateale entro cinque
anni dalla data in cui la richiesta del contribuente è divenuta definitiva. Cosa si
intende per richiesta “definitiva”?
Risposta:
Per quanto riguarda l’istanza diretta a richiedere i rimborsi delle maggiorazioni
indebitamente versate dall’anno 2013 all’anno 2018, la stessa deve essere presentata entro
il termine di cinque anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è stato accertato
il diritto alla restituzione, a norma dell’art. 1, comma 164 della legge 27 dicembre 2006, n.
296.
Nel caso in cui il comune concordi con la richiesta di rimborso presentata dal contribuente,
la stessa può ritenersi definitiva e quindi il comune provvede, sempre a norma del comma
164, al rimborso entro centottanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza, oppure in
forma rateale entro 5 anni, come previsto dal comma 917 dell’art. 1 della legge n. 145 del
2018.
Se, invece, l’ente locale esprime parere negativo alla richiesta di rimborso, occorre
distinguere due fattispecie. In caso di rifiuto espresso, il contribuente, a norma dell’art. 19,
comma 1, lett. g) del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, può impugnare tale atto entro 60
giorni.
Per la definitività del diritto al rimborso, pertanto, occorre attendere il passaggio in giudicato
della sentenza.
In caso di rifiuto tacito, invece, il contribuente può procedere all’impugnativa, sempre a
norma del citato art. 19, comma 1, lettera g) del D. Lgs. n. 546 del 1992, dopo il novantesimo
giorno dalla presentazione dell’istanza e fino a quando il diritto alla restituzione non è
prescritto, come disposto dall’art. 21, comma 2, del medesimo D. Lgs. n. 546 del 1992.
Anche in questo caso il diritto alla restituzione diviene definitivo con il passaggio in giudicato
della sentenza.
Domanda
Relativamente ai Comuni che nel corso degli anni hanno aumentato le tariffe base
dell’Icp, si chiede con quali modalità devono effettuare l’attività di accertamento per
le annualità pregresse (2013-2018), in particolare se gli avvisi per omesso pagamento
Icp possono già riportare le tariffe base del 2001, in maniera tale da liquidare il
recupero dovuto con le corrette tariffe anche se non conformi alle delibere già
adottate.
Risposta:
L’attività di accertamento per gli anni dal 2013 al 2018, tesa al recupero degli omessi
versamenti, deve essere effettuata tenendo conto di quanto sancito dalla Corte
Costituzionale nella sentenza 10 gennaio 2018, n. 15, con la conseguenza che, a partire
dall’anno 2013, non devono essere applicate le maggiorazioni di cui all’art. 11, comma 10
della legge n. 449 del 1997.
Quanto al richiamo “alle tariffe base del 2001”, il quesito sembrerebbe riferirsi al D.P.C.M.
16 febbraio 2001 con il quale è stata rideterminata, con decorrenza dal 1° marzo 2001,
unicamente la tariffa per la pubblicità ordinaria di cui all’art. 12 del D. Lgs. n. 507 del 1993.
Detta tariffa non si applicava automaticamente ma doveva essere oggetto di un apposito
recepimento da parte dei comuni.
Pertanto, ai fini dell’accertamento per le annualità pregresse, si deve tenere conto delle
tariffe deliberate e applicabili in ciascun comune per gli anni oggetto di accertamento, senza
tenere conto della maggiorazione di cui all’art. 11, comma 10, della legge n. 449 del 1997. - Domande: Tari
Si chiede se per gli enti che adottano la tariffa corrispettiva di cui all’articolo 1,
comma 668, della legge 147/2013, continua ad applicarsi il tributo provinciale di cui
all’articolo 19 del Dlgs 504/1992, da applicarsi nella percentuale deliberata dalla
provincia sul totale della tariffa corrispettiva dovuta dall’utente. Sul punto, si
rammenta che la Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza 17113 dell’11 luglio
2017, ha ritenuto che le controversie che attengono il tributo provinciale, anche se
applicate come maggiorazione della Tia 2 – entrata di natura corrispettiva, così come
chiarito dall’articolo 14, comma 33 del Dl n. 78/2010 – rimangono di competenza del
giudice tributario. La Suprema corte precisa che “Né è idonea a snaturarne la natura
di tributo il mero collegamento quantitativo e percentuale con la TIA2 che, ancorché
abbia natura privatistica non comporta la modifica della natura della relativa
addizionale regionale, fungendo solo da parametro per la quantificazione di tale
prestazioni che ha natura di tributo a favore delle Province”. Coerentemente con tale
principio di diritto, si dovrebbe ritenere che il tributo provinciale in questione
continua ad applicarsi anche alla Tari corrispettivo di cui al comma 668 citato. Si
chiede conferma dell’interpretazione proposta.
Risposta:
Come affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione indicata nel quesito, il tributo
provinciale per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene ambientale (TEFA)
rappresenta il sistema di reperimento della provvista necessaria alle province per “l’esercizio
di utilità generale di funzioni di interesse pubblico”.
Pertanto, l’applicazione del TEFA prescinde da un suo collegamento a un tributo oppure a un
corrispettivo.
D’altronde, una conferma di tale conclusione si ricava dalla stessa sentenza, laddove in
riferimento alla TIA2 si afferma, come già riportato nel quesito, che “non è idonea a
snaturarne la natura di tributo il mero collegamento quantitativo e percentuale con la TIA2
che, ancorché abbia natura privatistica, non comporta la modifica della natura” del TEFA,
“fungendo solo da parametro per la quantificazione di tale prestazione che ha natura di
tributo a favore delle Province”.
Si deve anche rilevare che se l’applicazione del TEFA dipendesse dal tipo di prelievo
deliberato dall’ente locale, si verificherebbe non solo un’ingiustificata disparità di
trattamento tra i contribuenti assoggettati alla TARI-tributo e gli utenti soggetti alla TARIcorrispettivo, ma anche una diversa possibilità da parte delle province di svolgere un
servizio, che sarebbe compromesso per carenza di risorse disponibili nel caso in cui i comuni
avessero optato per il regime corrispettivo.
Domanda.
Per i Comuni che adottano la tariffa corrispettiva di cui all’articolo 1, comma 668,
della legge 147/2013, si pone il problema delle quote inesigibili accertate in via
definitiva con rifermento alla Tari tributo. In particolare, si chiede se le quote
inesigibili accertate in via definitiva, ovvero dopo che siano trascorsi sei mesi dalla
notifica dell’ingiunzione di pagamento o della cartella, possano essere imputate,
come componente di costo, al piano economico finanziario della Tari corrispettivo,
similmente a quanto previsto per gli inesigibili Tia 1, Tia 2 e Tares dall’articolo 1,
comma 654-bis, della legge 147/2013. Si precisa che la mancata imputazione di tali
costi nel Pef Tari corrispettivo determina un maggior onere per il bilancio comunale,
nella misura in cui gli accantonamenti variamente previsti siano inferiori alle quote
accertate come inesigibili, oltre che una probabile violazione dell’articolo 1, comma
654, della legge 147/2013, norma questa che impone di garantire, con le entrate Tari,
la copertura integrale dei costi.
Risposta:
Non si ravvisano impedimenti all’inserimento dei crediti inesigibili nel caso di passaggio dalla
TARI-tributo alla TARI-corrispettivo.
Al riguardo, occorre innanzitutto premettere che la questione non si può inquadrare nel
comma 654-bis dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, poiché detta disposizione ha previsto
che “tra le componenti di costo vanno considerati anche gli eventuali mancati ricavi relativi a
crediti risultati inesigibili con riferimento alla tariffa di igiene ambientale, alla tariffa
integrata ambientale, nonché al tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES)”. La norma
infatti consente di inserire nel piano finanziario della TARI costi che non sono riferibili alla
TARI stessa, poiché riguardano annualità pregresse in cui erano vigenti la TIA1, la TIA2 e la
TARES.
Con questa previsione è stato superato il parere contenuto nella delibera n. 73/2015/PAR
del 2015 della Corte dei Conti, nella quale la Sezione regionale di controllo per la Toscana,
dopo aver evidenziato la diversità formale e sostanziale della disciplina relativa alla TIA1 e
alla TARI, aveva risposto negativamente al quesito se “in generale, sia legittimo inserire nel
piano finanziario TARI accantonamenti e perdite su crediti afferenti ad una forma di prelievo
soppressa con l. n. 147/2013”. La risposta della Sezione si poggiava su considerazioni
attinenti al principio di integrale recupero dei costi e, in particolare, sulla circostanza che
ciascuna tariffa “deve essere costruita in modo da bastare a sé stessa, e non nascere già
gravata da oneri pregressi (relativi a crediti non incassati, originati da tributi risalenti e ormai
soppressi), che avrebbero dovuto trovare idonea copertura nel quadro dei rispettivi regimi
normativi, attraverso adeguati accantonamenti o maggiori previsioni di entrata”.
La Corte non ha messo quindi in discussione il principio secondo cui quando i crediti
inesigibili sono riconducibili allo stesso regime di prelievo questi possono essere inclusi tra i
costi da coprire con la TARI negli anni successivi, né detto principio è stato sconfessato dal
citato comma 654-bis.
Nella stessa ottica va inquadrata la più specifica problematica posta nel quesito, poiché si
ritiene che anche i crediti inesigibili insorti in vigenza della TARI-tributo possano essere
inseriti nella TARI-corrispettivo. Le due entrate infatti rappresentano le diverse modalità in
cui la TARI può essere declinata, per cui non si verifica alcuna soluzione di continuità fra le
stesse, come invece avverrebbe nel caso di soppressione di un previgente prelievo sui rifiuti,
ipotesi oggetto del parere della Corte dei Conti della Toscana e del comma 654-bis in esame.
A conferma di ciò, si può aggiungere che il piano economico finanziario della TARIcorrispettivo, così come quello della TARI-tributo, è governato dalle stesse regole contenute
nel D.P.R. n. 158 del 1999, per cui i costi del servizio di gestione dei rifiuti da inserire nel
piano finanziario sono i medesimi sia che ad essi si faccia fronte con un prelievo di carattere
tributario, sia con una tariffa di natura corrispettiva.